Mario MARASCHI

 

Rovesciata al Novantesimo Maraschi fa piangere la Nord

                                                            

Il 17 marzo del 1974 Vincenzo Montella e Marco Borriello non sono ancora nati. Il 17 marzo 1974 allo stadio Luigi Ferraris si gioca Sampdoria-Genoa, ventunesima giornata del campionato di serie A. Le due squadre sono in fondo alla classifica, il Genoa ha 12 punti, la Sampdoria (ultima) 11, frutto anche di tre punti iniziali di penalizzazione. Il quart' ultimo posto, l' ultimo utile per evitare il precipizio della B, dista rispettivamente di tre e quattro punti, non proprio un soffio, se si considera che la vittoria all' epoca vale due punti e che il campionato finisce alla trentesima giornata.

La Sampdoria schiera al centro dell' attacco Mario Maraschi, classe 1939, 35 anni da compiere di lì a poco, vecchio bucaniere delle aree di rigore, quasi un globetrotter del calcio per un calcio che è ancora quello delle bandiere e dei trasferimenti con il contagocce: Fanfulla (squadra di Lodi, sua città natale), quindi Pro Vercelli, Milan , Lazio, Bologna, Lanerossi Vicenza, Fiorentina, di nuovo Lanerossi Vicenza e Cagliari, le tappe della sua carriera. Poi, improvvisamente, Genova.

«Nell' estate del 1973 il Cagliari decise di vendermi. L' anno prima dovevo andare alla Juventus e invece finii sull' isola, dove non mi trovai affatto bene. D' altra parte, all' epoca eravamo "schiavi" delle società, altro che svincolo, parametro e legge Bosman. Andavi dove ti mandavano. E senza discutere. Capitò l' occasione della Sampdoria, dove conobbi Glauco Lolli Ghetti, il presidente, armatore e persona squisita. Ricordo che giocai anche a golf nel suo club a La Margara nell' alessandrino, dove andavamo in ritiro. Ma i problemi li avevo non con lui, ma nello spogliatoio, dove c' era un gruppo di senatori che influenzava pesantemente il povero Guido Vincenzi, allenatore ancora giovane e inesperto».

Maraschi, nonostante la concorrenza nel reparto avanzato fosse assai marginale, giocava poco. «Ma un giorno vennero il vicepresidente Roberto Montefiori e Paolo Mantovani, che all' epoca si affacciava nella società. Avevamo giocato un' amichevole con lo Spezia e avevamo vinto 5-1 con quattro gol miei. Mi dissero: "Mario, uno come te deve giocare e domenica a San Siro giocherai". Con l' Inter rimasi ancora in panchina, ma la domenica dopo tornai titolare contro la Lazio, che era prima in classifica e che avrebbe vinto lo scudetto». Una partita impossibile, quel testacoda, e invece...

«E invece vincemmo 1-0 con gol decisivo, segnato da me. Pensare che il sabato pomeriggio in ritiro a Rapallo, passò davanti al nostro albergo il pullman della Lazio e il presidente Lenzini, che era stato il mio presidente anni prima mi abbraccio, dicendomi: "Ti voglio bene come un figlio, e sono contento che giochi, ma domani non c' è storia. Siamo troppo più forti ".» Da quel giorno Maraschi non uscì più di squadra. Il suo mestiere era fondamentale, per tentare di tenere a galla una squadra, per la quale i tre punti di penalizzazione parevano un fardello insopportabile per evitare la seconda retrocessione in B pochi anni dopo quella del ' 66: «C' erano giocatori validi come Marcello Lippi, ma molti ragazzi erano ancora troppo inesperti. Penso, ad esempio, a Chiarenza al quale ho fatto da chioccia e che ho rivisto qualche giorno fa su un campo di calcio, alla guida della Primavera della Juventus». Quel derby, quel 17 marzo 1974, non era solo un derby.

Era una questione di sopravvivenza: «Chi perdeva, rischiava di finire all' inferno oltrechè di fare una vita impossibile a causa degli sfottò dei cugini. All' epoca, noi della Sampdoria eravamo in netta minoranza. Il Genoa aveva molta più storia, poi nel passato recente c' è stato un certo riequilibrio, grazie a quel grande presidente che è stato Paolo Mantovani, che ha saputo con i successi allargare la tifoseria. Persino mio figlio, che è nato a Genova, è sampdoriano. Quando si giocava il derby, Marassi era per tre quarti rossoblù e per un quarto popolato di bandiere blucerchiate. Ma questo invece di deprimerci, moltiplicava i nostri sforzi. Quella partita non dovevamo perderla, tanto più che all' andata avevamo già vinto, un 2-0 senza discussioni».

Ma quel 17 marzo, le cose per la Sampdoria si mettono male. Il Genoa, che pure ha i suoi problemi, e non pochi, approfitta di un' uscita a vuoto del portiere blucerchiato Massimo Cacciatori. Sotto la Nord segna Derlin, un centrocampista, e per i blucerchiati si fa notte. Mancano solo dieci minuti alla fine. La vendetta sembra consumata, nonostante il moto perpetuo di un certo Nicolini ( poi sarà soprannominato il Netzer di Quezzi) inserito alla fine del primo tempo al posto di uno spento Petrini.

«Perdendo, saremmo stati staccati definitivamente. Lo stadio era una bolgia, vedevo bandiere rossoblù sventolare ovunque. Mancavano pochi secondi alla fine, anzi forse era già finita. Chissà, all' epoca non esisteva il tempo di recupero, decideva l' arbitro se far proseguire la partita e di quanto dopo il 90' in assoluta discrezionalità. Una bolgia e con lo sguardo, vedevo la tristezza sui volti dei nostri tifosi in gradinata Sud. Quelli del Genoa avevano un trasporto particolare, speravano di poter rinverdire i fasti di un tempo, e invece anche per loro erano anni di vacche magre. Vincere quel derby sarebbe stato un parziale riscatto». è l' ultimo, disperato, assalto della Sampdoria. «L'area del Genoa è piena zeppa di giocatori, probabilmente erano tutti lì.

Io ero poco dentro l'area, marcato da dietro da un difensore, non ricordo chi fosse. Prini sulla fascia fa partire un cross, io prima penso che dovrei tentare il colpo di testa, poi capisco che non ci arrivo ma che non ho neanche il tempo per girarmi. D'istinto, mi viene da agganciare il pallone abbassandomi con la schiena, sento il pallone sul collo del piede e da quel momento capisco che potrebbe venir fuori qualcosa di eccezionale». è un attimo. il pallone finisce nell' angolino dietro Spalazzi, Maraschi viene sommerso dall' abbraccio dei compagni e poi scoppia in lacrime. La partita finisce qui, 1-1, non c' è neppure il tempo per riprendere.

«I genoani erano furibondi, uscendo sentivo urla di ogni tipo, insulti. Comprensibile da parte loro. Per me era una gioia indescrivibile, soprattutto vedendo i volti dei nostri tifosi, che sembravano rivivere».

Un pareggio che per i blucerchiati è come una vittoria anche se la classifica dice che a nove giornate dalla fine la Sampdoria resta all' ultimo posto con 12 punti, a cinque dal Vicenza quart' ultimo. «Il giorno dopo i sampdoriani vanno nei bar e invitano a bere gli amici genoani: "Vieni - gli dicono - ti offro un Maraschino". », ridacchia Maraschi. Ma la storia non finisce qui. I blucerchiati termineranno la stagione al penultimo posto, con un sorpasso apparentemente inutile ai danni dei cugini del Genoa. Retrocedono insieme, che tristezza. Anzi no, perché l' estate regala un colpo di scena.

Il Foggia viene retrocesso a tavolino per aver regalato all' arbitro, prima della partita contro il Milan, tre orologi di valore. Stessa sorte tocca al Verona, il cui presidente Saverio Garonzi, prima dell' incontro con il Napoli, aveva promesso al centravanti partenopeo Sergio Clerici un incarico alla Fiat. Illecito sportivo, e così la Sampdoria viene ripescata, con tanto di festeggiamenti in piazza dei suoi tifosi in un pomeriggio di mezza estate. «Quel gol, che sembrava solo un salvavita contro gli sfottò, ci evitò anche la B». Così due anni fa quelli della Sampdoria si sono ricordati di Maraschi e il presidente Garrone a Moena gli ha donato una targa in ricordo della mitica rovesciata. Oggi Maraschi, che ha 69 anni e due figli, vive a Vicenza e allena i pulcini del club biancorosso. «Il calcio mi è rimasto dentro anche se smessa la carriera mi ero dato a tutt' altro mestiere. E quando posso gioco ancora per beneficenza». Niente più rovesciate, ma per i tifosi della Sampdoria è rimasto "quello del maraschino".

FONTE: archivio repubblica