LADY AND GENTLEMAN: CHARLIE CHAMPAGNE SOUNESS
Broomhouse, periferia di Edimburgo. Privazioni e duro lavoro, schiettezza ed energia, il pieno di adrenalina attraverso un boccale di McEwan’s o un bel bicchiere di Glenkinchie. Caratteristiche di un quartiere che non possono non essere percepite e fatte proprie da chi vi cresce dentro. E’ fra i prefabbricati ai confini con Sighthill che Graeme Souness nasce il sei maggio del 1953 a sole undici ore di distanza da un altro cittadino prediletto della “Atene del Nord”, l’ex premier britannico Tony Blair.
Un’infanzia fatta di molti calci a lattine vuote ed a carte arrotolate sulla Medway, di poche cene in famiglia, perchè il padre lavorava sempre, in vetreria, e presto insieme a lui anche i due figli maggiori, ma anche di fette di carne sempre nel piatto, perchè Mr. James Souness non ha mai fatto mancare nulla ai suoi tre figli, tanto meno al più giovane, destinato ad una vita sportiva leggendaria. Non solo durezza.
Ma crescere in un quartiere come quello lascia la traccia non solo del senso della sofferenza o della serieTà del carattere, ma anche della passione e dell’energia del temperamento.
La madre era costretta a cercare di contenere il discolo Graeme, ma il vero problema erano le scarpe: pallone poco, oggetti di ogni genere molti, per cui una volta alla settimana tacchi e punte erano completamente da rifare. Storie di periferia industriale, dove sogni di diventare un grande, per non essere costretto a finire pure tu in fabbrica, come il resto della famiglia.
La partenza per Londra e l’esplosione nel Nord Est
L'avventura nel mondo del pallone per Souness comincia al college, quando compie quattordici anni. In Scozia, ogni scuola ha la sua squadra ufficiale, preparata e selezionata attraverso acerrimi tornei interni all’istituto, dove i migliori emergono per forza. Con le prime scarpe da calcio della sua vita ed il primo pallone di cuoio, Graeme si fece subito notare. Proprio al termine di un match scolastico venne reclutato da un osservatore dell’Hibernian, la squadra più importante della città. E grazie alle giovanili dei biancoverdi Hibs arrivò la grande occasione.
Wembley a quattordici anni deve fare una certa impressione: ai ragazzini normali, non certo al giovane Souness che, in un’amichevole con gli School Boys inglesi, giocò con gran spavalderia e condusse i compagni alla vittoria per 2-0. Notato dai dirigenti del Tottenham, il ragazzo di Edimburgo non si lasciò sfuggire l’opportunità: giocare a Londra, per uno scozzese, è l’unica cosa che conti, è la fuga dalla mediocrità.
Ma le speranze, spesso, si trasformano in chimere. Quattro anni durissimi agli Spurs, con una sola comparsata a Keflavik in una morbida trasferta islandese di Coppa Uefa, con tante distrazioni e troppe tentazioni, ma soprattutto con una soverchiante nostalgia delle Highlands. Tra fughe ad Edimburgo e dissidi con la società londinese, la sera di San Silvestro del 1972, Souness ebbe il vero colpo di fortuna che gli cambiò la vita. A White Hart Lane nessuno credeva più in lui, nel Nord-Est c’era invece un uomo che dopo averlo visto una volta giocare, non aveva più smesso di pensare a lui: Jackie Charlton, all’epoca allenatore del Middlesbrough, fece una timida offerta agli Spurs che, esausti delle bizze del ragazzo scozzese, incredibilmente accettarono.
Cominciò una nuova vita, anche perchè il tecnico irlandese era un sergente di ferro, uno che non ti lasciava passare nulla, ma soprattutto un grande intenditore di pallone: Graeme era nato come mediano difensivo, Charlton lo trasformò in un interno a tutto tondo, esaltando le sue straordinarie doti tecniche e facendogli imparare la necessità di velocizzare il suo raggio d’azione, ma soprattutto stabilizzò le sue bizze caratteriali, tirando fuori dall’acerbo Casanova (nel Boro all’inizio si parlava più delle sue conquiste amorose che del suo cristallino talento calcistico) in un uomo vero. Nei quattro anni passati nello Yorkshire la crescita fu esponenziale, al punto di diventare un eroe dei tifosi del Boro, conquistati dalla sua classe, ma soprattutto dalla sua incontenibile verve da trascinatore. Debuttò subito, il giorno dell’Epifania del 1973, in una sfortunata trasferta a Londra contro il Fulham, quindi disputò con i Reds del Nord Est altre centosettantatre partite in campionato, segnando ventidue gol, oltre a quaranta matches di Coppa, dove impresse il proprio marchio cinque volte. Resta storica la tripletta che segnò contro lo Sheffield Wednesday nel 1974 nella partita chiave per la promozione in massima divisione del Middlesbrough.
Tanto veemente fu l’esplosione di Souness che la provincia cominciò ad andargli stretta: altri Reds, ben più blasonati, lo stavano attendendo e fu ancora un ultimo dell’anno a far storia nella vita calcistica di Graeme. Era il 1977, firmò per il Liverpool e scese in campo per l’ultima volta ad Ayresome Park, lo stadio sulle cui ceneri è sorto l’attuale Riverside Stadium. Partita contro il Norwich, tutti sapevano delle 352.000 sterline versate da Bob Paisley per avere Souness: la contestazione nei confronti dello scozzese fu tumultuosa, lo insultarono pesantemente, lo accusarono di mancanza di cuore, ma lui è sempre stato uno che è meglio non provocare. Se ne andò dal campo che le dita levate a V, gesto che in Gran Bretagna è un chiaro invito ad andare a quel paese. Vi mandò i tifosi del Boro, mentre lui prese la via di Anfield Road.
Gli Anni Ruggenti: in sei stagioni e mezzo vince tutto quel che c’è da vincere, tranne la Coppa più importante.
Oggi sono passati trent’anni dal giorno in cui Graeme Souness varcò per la prima volta quello che ora si chiama “Paisley Gateway”, ma su un muro esterno dello stadio del Liverpool si legge ancora una scritta sbiadita: “Graeme is magic”, testimonianza di una grandezza e di un periodo che il tempo non ha potuto cancellare. Sei anni e mezzo in cui i Reds allenati da Bob Paisley vinsero tutto, in Inghilterra ed in Europa. Con Anfield fu subito amore: quel Liverpool era una squadra formidabile, con campioni del calibro di Kenny Dalglish e Terry McDermott, Ray Clemence ed Alan Hansen, ma Souness ne divenne subito guida incontrastata.
Dall’esordio il 14 gennaio a The Hawthorns, lo stadio del West Bromwich Albion, al primo gol davanti alla Kop passarono quaranta giorni: una data rimasta nella storia, il 25 febbraio del 1978. Il Liverpool si sbarazzò con un secco tre a uno degli eterni rivali del Manchester United, Souness segnò il primo dei cinquantacinque gol che l’avrebbero fatto entrare nella Hall of Fame della Merseyside e nel Museo delle Cere di Londra, il Madame Tussauds. Fu solo l’inizio di una grande storia, perchè nei successivi sei anni lo scozzese divenne ilCapitano dei Reds e li condusse alla vittoria di ben quindici trofei: un ruolino impressionante, fatto di tre Coppe dei Campioni, cinque scudetti, quattro Coppe di Lega, tre Charity Shields. Gli sfuggirono la Coppa Intercontinentale che nel 1978 non venne disputata, mentre il 13 dicembre del 1981 il Liverpool venne travolto 3-0 dal Flamengo di Zico e la Supercoppa Europea, disputata e persa nel doppio confronto con l’Anderlecht nel dicembre 1978, mentre nel 1981 i Reds non trovarono ufficialmente date disponibili per incontrare la Dinamo Tbilisi, anche se da più parti venne avanzata l’ipotesi che la dirigenza inglese volesse evitare la trasferta in Unione Sovietica.
Ma, soprattutto, il grande rammarico di Souness fu e resta l’assenza nel suo dorato palmares della FA Cup. La Coppa d’Inghilterra, il trofeo più importante in terra d’Albione, gli è sempre sfuggita: nemmeno una finale, per cui resta storica la sfida in semifinale nell’edizione del 1980. Furono necessarie quattro sfide furibonde contro l’Arsenal, si giocò tre volte al Villa Park di Birmingham, con Souness sempre in campo, e finì ogni volta in un pareggio per uno ad uno: al quarto replay, giocato il primo maggio all’Highfield Road di Coventry, i Gunners si imposero per uno a zero e lo scozzese dovette rinunciare una volta per tutte al sogno della finale nel tempio di Wembley.
Non riuscì ad essere decisivo, lui che fu tante volte la chiave di volta dei successi del Liverpool. Non era certo uno che si tirasse indietro, Graeme Souness: fu lui il “Man of the Match” nella finale di Coppa dei Campioni del 1978, contro il Bruges di Renè Vandereycken, fu lui a segnare il gol vittoria della Coppa di Lega 1984 a Maine Road contro l’Everton, fu ancora lui ad assumersi la responsabilità di calciare il rigore più importante, il terzo, dopo l’errore di Bruno Conti nella finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico contro la Roma, la notte del 30 maggio del 1984.
La leggenda di Champagne Charlie ed un’occasione da non perdere.
Un giocatore completo, senza punti deboli, un uomo dal carattere fortissimo, ma con una passione mai nascosta: le belle donne. Graeme Souness ha sempre negato di essere un Casanova o, peggio ancora, un Dongiovanni, ma la sua predilezione per il gentil sesso è sempre stato sotto gli occhi di tutti.
La leggenda di Champagne Charlie nacque negli anni di Middlesbrough, dove pare davvero che avesse fatto strage di cuori, al punto di venir preso a muso duro da Jackie Charlton, perchè il rischio era quello di veder finire una carriera potenzialmente stratosferica nelle viscere delle notti di una cittadina industriale dell’Inghilterra del Nord Est. Quell’appellativo, nella Gran Bretagna degli Anni Settanta, spettava a chi conduceva una vita brillante e raffinata, pur arrivando dalle classi operaie, e Souness l’ha sempre detestato, ma resta il fatto che le conquiste amorose dello scozzese fecero epoca sui tabloid inglesi, che lo immortalarono persino con Mary Stavin, statuaria Miss Mondo 1977 e Bond Girl nel mitico Octopussy, facendo scoppiare il finimondo subito dopo la conquista della prima Coppa dei Campioni.
Poi una sera incontrò Danielle Wilson, la sposò e mise la testa a posto per un po’.
Ma ormai per tutti era Champagne Charlie, un nomignolo che non si tolse più di dosso.
Il 1984 è, forse, l’anno migliore della carriera dello scozzese: un treble favoloso, con scudetto, Coppa di Lega e Coppa dei Campioni, ma gli stimoli di chi sta vincendo tutto cominciano a mancare. La Nazionale scozzese con la quale totalizzò complessivamente cinquantaquattro presenze e quattro reti, disputando tre Mondiali non era nemmeno questa volta riuscita a qualificarsi per gli Europei che a giugno si sarebbero disputati in Francia, il Liverpool aveva ormai vinto tutto quello che c’era da vincere, Souness doveva assolutamente trovare una nuova sfida: una telefonata dell’amico Trevor Francis, lo Striker che faceva impazzire la Genova blucerchiata, gli mise la pulce all’orecchio, la classe ed il carisma di Paolo Mantovani fecero il resto.
La Sampdoria aveva bisogno di un Condottiero con cui sostituire Liam Brady, partito per l’Inter, Charlie aveva bisogno di un’avventura che riaccendesse la sua passione. Insomma, un’occasione da non perdere: la vittoria allo Stadio Olimpico di Roma della terza Coppa dei Campioni fu la sua ultima partita con la maglia dei Reds.
La Sampdoria e l’avvio di un’era di cui Souness è precursore.
Una mattina di luglio, estate del 1984. Una città intera si bloccò per il capitano dei Reds pronto ad indossare la casacca blucerchiata numero otto. Migliaia di tifosi assediarono l’aeroporto di Sestri Ponente, quindicimila persone invasero e bloccarono la centralissima Via XX Settembre per vedere il fuoriclasse scozzese affacciarsi dalla terrazza della sede dell’U.C. Sampdoria, subito dopo la firma del contratto.
Sul balcone non spuntò solo lo scozzese, ma accanto a lui altre tre persone: Paolo Mantovani, Eugenio Bersellini e Trevor Francis. Il boato dei tifosi doriani scosse il centro cittadino, Souness esterrefatto dichiarò: “Incredibile, mai visto un entusiasmo simile, a Liverpool nemmeno per la conquista della Coppa dei Campioni"!
Charlie divenne subito un beniamino della tifoseria, anche perchè già alla prima giornata di campionato fece vincere la Sampdoria con un siluro dalla distanza che non lasciò scampo al portiere della Cremonese, ospite a Marassi. Fu una grande stagione: la Sampdoria finì quarta in campionato, con cinque gol dello scozzese, ma soprattutto conquistò la sua prima Coppa Italia nella magica notte del 3 luglio del 1985, che sancì l’avvio ad un’epopea irripetibile ľapporto che Souness diede alla conquista del primo storico trofeo blucerchiato fu sensazionale: da un lato la sua esperienza, nelle dodici partite disputate, dall’altro lo straordinario gol con cui nella finale di andata a San Siro spianò la strada al successo doriano contro il Milan.
Graeme Souness, decisivo come sempre. La sua avventura terminò l’anno successivo, con un totale di 78 presenze ed undici reti, tra campionato e coppe, forse perchè incompatibile con il più giovane Matteoli, forse perchè lui stesso sognava la sfida di giocare nei Rangers:fatto sta che a Genova, in soli due anni, lasciò una traccia indelebile.
Player-Manager a Glasgow, diventa il Rivoluzionario.
Per uno scozzese protestante, lo stadio di Ibrox è l’approdo finale della propria vita calcistica. Come giocatore e, contemporaneamente, allenatore dei Rangers di Glasgow, Souness giocò 73 partite e vinse campionato e coppa di lega alla prima stagione, nel 1986-87. Ma nei cinque anni sulla panchina dei Light Blues il grande merito di Charlie da Edimburgo fu, soprattutto, quello di dare una mentalità nuova al club, ai tifosi, ai giocatori.
Furono anni d’oro, dopo l’en plein del primo anno, si prese una pausa la stagione successiva, quindi condusse i Rangers ad altri tre scudetti consecutivi, i primi della clamorosa serie di nove che si concluse nel 1998. Un dominio incontrastato, dopo anni di declino. Prima che arrivasse lui, ad Ibrox non vedevano un campionato da dieci anni. Fece arrivare giocatori esperti e vincenti come gli inglesi Terry Butcher e Ray Wilkins, scozzesi del calibro di Richard Gough ed Ian Ferguson, genialoidi come Mark Walters e Trevor Steven, ali vere, di quelle che oggi non se ne vedono più, valorizzò fenomeni che sarebbero rimasti per sempre nella storia di Ibrox come Alistair McCoist e Ian Durrant.
Una squadra favolosa, alla quale Souness applicò tutto ciò che aveva imparato nella sua straordinaria carriera. Ma ciò che lo rese per sempre un “Revolutionary” fu l’imposizione cui costrinse tutti nell’estate del 1989: dal Nantes arrivò Maurice “Mo” Johnston, ex Celtic e cattolico di religione. Tutti si infuriarono a Glasgow, da una parte e dell’altra, ma alla fine vinse ancora una volta il Duro del Broomhouse. Johnston non fu il primo cattolico a vestire la maglia blu, ma fu colui che segnò una storica inversione di tendenza, perchè dopo di lui ne vennero molti altri ancora. E nel suo primo Old Firm segnò il gol della vittoria, facendo diventare Souness un autentico eroe rivoluzionario.
Tecnico itinerante, ma poco vincente.
Nell’estate del 1991 decise di smettere e di accettare l’offerta dell’amato Liverpool come manager. Ma non fu un’epoca d’oro per i Reds che in tre anni, sotto la sua guida, vinsero appena un FA Cup, quella che da giocatore gli era sempre sfuggita. Un debito col passato saldato, ma troppo poco per aprire un’era. Nel 1994 ripartì dalla Turchia, sponda Galatasaray, dove divenne più famoso per aver piantato al centro del campo al termine di un derby col Fenerbah una bandiera giallorossa che per le vittorie, visto che si aggiudicò solo la Coppa.
Gli anni successivi furono un peregrinare senza costrutto per l’Europa: Southampton, Torino e Benfica, prima di tornare in Inghilterra a Blackburn.
Nel 2001 riportò subito i Rovers in Premier, l’anno successivo li condusse alla vittoria della Worthington Cup al Millennium di Cardiff. Con gente come Damien Duff, Andy Cole e Dwight Yorke sembravano esserci tutti i presupposti per aprire un ciclo.
Ma non fu così: dopo le solite mille discussioni con la proprietà, la sua esperienza finì nel 2004, con una nuova sfida per non far rimpiangere Sir Bobby Robson al Newcastle. Nonostante grandi giocatori come Shearer ed Owen, nonostante un memorabile 3-2 in un Tyne-Wear Derby con il Sunderland, nonostante una semifinale di Coppa Uefa, Souness non è mai riuscito a dare una vera impronta ai Magpies. La sua avventura si è chiusa drasticamente nel febbraio dello scorso anno e da allora la sua carriera di tecnico si è bloccata. Molte voci, alcuni abboccamenti, niente di davvero concreto: una carriera da manager nata sotto una cattiva stella. Preferiamo allora ricordare il Souness calciatore, uno dei più grandi interni che la storia del calcio europeo abbia mai conosciuto.
di Matteo Asquasciati, da Calcio2000 del gennaio 2008