Lezioni di stile, quel che resta dello "zio Vuja"

14.05.2014 16:23

La notizia della morte di Vujadin Boskov è stata battuta dall'Ansa domenica intorno alle 19. Nemmeno due ore più tardi, allo stadio Atleti Azzurri d'Italia di Bergamo, è stato esposto uno striscione che recitava:“Rigore è quando arbitro fischia – Onore al calcio antico, onore a Boskov”. Preludio alla valanga di messaggi di cordoglio e attestati di stima che si sono riversati da ogni angolo del mondo-calcio, in un coro unanime di simpatia che va oltre la retorica. E le ragioni, a ben vedere, stanno tutte nella citazione riportata dai tifosi atalantini.

A chi non ha conosciuto il personaggio Boskov e non ha mai ascoltato una sua intervista, a chi era troppo giovane a quei tempi o non era ancora nato, o è semplicemente una persona superficiale, la frase “rigore è quando arbitro fischia” può sembrare una battuta banale, se non addirittura stupida. Invece bisogna analizzarla nel suo preciso contesto, per comprenderne la bellezza. E il contesto era quello dei “salotti del calcio” dove, ieri come oggi, tutto viene preso a pretesto per polemizzare e alimentare la cultura del sospetto e dei rancori. Così, la sua felice battuta è stata il modo più elegante, beffardo e lontano anni luce dai soliti giri di frasi fatte per sottrarsi al “teatrino”, per non concedersi al gioco perverso del vittimismo e delle diatribe da moviola.

Ma non soltanto. Perché “rigore è quando arbitro fischia” rappresenta pure il desiderio e l'istinto di riportare il calcio sui binari della giocosità, dei toni leggeri, quelli cioè che meglio si accordano con ciò che intendiamo per sport e divertimento. E sono così tante leboutade sullo stesso tenore del tecnico serbo, come quella altrettanto nota in cui appellava Mancini come “terrorista di spogliatoio”, disinnescando tra le risate generali la situazione esplosiva che andava creandosi all'interno della squadra, da escludere ogni sospetto d'involontarietà in questo suo modo d'intendere la vita, prima ancora che il calcio.

È indubbio, del resto, come lo stile-Sampdoria degli anni d'oro debba allo zio Vuja almeno quanto deve alla classe del Grande Paolo. Se ancora adesso, a distanza di venti e passa anni, anche i nostri più acerrimi rivali tributano onori a quella squadra e riconoscono i suoi valori al di là dei trofei conquistati, è per merito di questi due maestri e del marchio che hanno impresso al nostro club. Ma quanto questo marchio, questo famoso stile-Sampdoria, sia veramente indelebile, adesso spetta a noi dimostrarlo. A noi che restiamo e diamo continuità ai colori blucerchiati.

E allora la triste dipartita di Boskov e i ricordi inevitabili che riemergono di lui, a cominciare dal suo “rigore è quando arbitro fischia”, possono e devono essere anche l'occasione per un'autocritica e una riflessione da parte dell’ambiente intero. Perché quando ci perdiamo in “pañolade” o smettiamo di sostenere un giovane prodotto del nostro vivaio nel suo momento di maggiore difficoltà e addirittura lo attacchiamo, è proprio allora che disattendiamo tutto quello che sia Boskov sia Mantovani ci hanno lasciato in dote. E questo, consentitemi, è come non commemorare affatto l'allenatore che ci ha portati sul tetto d'Italia e d'Europa.