Lo scandalo della normalità

02.07.2013 14:01

Fa scalpore, in Sardegna e fuori, il fatto che un ragazzo sardo sostenga l’esame di terza media in sardo e lo superi a pieni voti. A ben guardare di notizia ce n’è più d’una. Una è appunto l’uso del sardo come lingua normale, dunque anche veicolare (ossia usata per trattare altre materie), un’altra è che questa scelta non ha comportato alcuna penalizzazione né espressiva né contenutistica, una terza riguarda il fatto stesso che un ragazzo sardo abbia superato l’esame di terza media.

Gli indici statistici sulla dispersione scolastica sono purtroppo impietosi. In Sardegna troppi minori non ultimano un regolare corso di studi e troppi giovani non sono impegnati né nello studio né nel lavoro (circa un quarto del totale tra i 18 e i 25 anni). Lo stesso tasso di laureati – contrariamente a quanto si presume – in Sardegna è estremamente basso. Un ragazzo che conclude il ciclo delle scuole medie e si appresta ad iscriversi a una scuola superiore è dunque una bella notizia di suo.
Ma questo non è certo l’aspetto che ha suscitato tanto interesse sul caso in questione. La pietra dello scandalo è l’uso del sardo, della lingua della fame, della parlata rustica e povera ereditata dalla nostra cultura agro-pastorale, impiegata come mezzo espressivo per parlare di scienza, storia, tecnologia. A ben guardare, però, la vera notizia è che questa evenienza faccia notizia. Non c’è ragione al mondo per cui non debba essere possibile usare il sardo in qualsiasi contesto e su qualsiasi registro, così come è ampiamente dimostrato che il bi- o plurilinguismo sia un fattore di crescita cognitiva, specialmente in età infantile e scolare. Non dovrebbe essere affatto strano, dunque, il fatto in sé. Tante reazioni e così esasperate a un evento del genere in realtà segnalano semplicemente – più di molti discorsi teorici – il grado di assuefazione dei sardi a una percezione di sé deficitaria e debilitata.
Il lavaggio del cervello che abbiamo subito da diverse generazioni (diciamo soprattutto negli ultimi 150 anni, con andamento crescente) ci ha inculcato la rassegnazione ad essere appendice insignificante di una civiltà altra da noi. L’unica scappatoia che la nostra intellettualità e la nostra classe dirigente abbiano saputo escogitare è quella della “specialità”. Ossia, la rinuncia ad essere pienamente noi stessi, a riconoscerci per quella collettività storica che siamo, con tutta la sua stratificazione culturale millenaria, in favore di una visione di noi stessi “regionale”, periferica, sottomessa. Inevitabilmente sottomessa (in quanto isolani-isolati, dominati, pocos locos y mal unidos, e però orgogliosi e resistenti).
Il che ha conseguenze molto pratiche ed evidenti. Su questo è necessario insistere, è indispensabile un esercizio di parresia che può risultare anche sgradevole, ma che è doveroso fare. Purtroppo – specie nella nostra classe intellettuale – sono troppo pochi coloro che se ne assumono la responsabilità. E questo va al di là dell’adesione alla singola opinione o al singolo assunto. È proprio un discorso di metodo, di prassi civile, di etica.
Così ci troviamo a celebrare come eccezione quella che dovrebbe essere la normalità. Occorre farsi delle domande sul perché invece non lo sia, sul perché in Sardegna usare il sardo sia altamente sovversivo dell’ordine costituito, almeno dell’ordine narrativo dominante. Le risposte che si trovano possono non essere sempre consolatorie. Possono chiamarci in causa, chiederci conto. Non è sempre una colpa degli “altri” quella da cui discendono i nostri mali, specie quando gli strumenti per capire li abbiamo a disposizione.
L’impressione è che se l’esempio del ragazzo di Cagliari fosse seguito da decine, centinaia di ragazzi, se nei fatti e non nelle petizioni di principio (specie in quelle espresse in campagna elettorale) ci riappropriassimo della nostra soggettività storica, ci riconciliassimo con la nostra vicenda collettiva, con la nostra cultura e la nostra civiltà plurisecolare, ci si spalancherebbero dinanzi possibilità inesplorate, spesso nemmeno sospettate. Possibilità di tipo materiale e immateriale, anche strettamente economico. Il che è precisamente ciò che l’apparato di potere che ci domina intende scongiurare, con ogni mezzo. Dobbiamo esserne coscienti e agire di conseguenza.

Fonte:https://sardegnamondo.blog.tiscali.it/