Novembre, la morte e la speranza
A novembre l'anno vegetativo è alla fine; la fine è il senso di questo periodo.
Nei percorsi degli scorsi mesi la corrispondenza stagionale nella coltivazione della terra è stata presa come base del senso più recondito e profondo delle simbologie sulle quali sono stati costruiti i miti, le religioni e le culture sapienziali che ne sono derivate; non deve quindi stupire che questo sia un periodo forte, fortissimo, dell'anno.
Non deve stupire che proprio al primo novembre sia posto il termine, e l'inizio, dell'anno agrario e parallelamente non deve stupire che lo stesso termine sia fissato per l'anno liturgico; può invece destare un qualche stupore vedere ancora una volta come liturgia e tempi contadini vadano a braccetto per sottolineare il profondissimo legame che abbiamo con nostra madre, la Madre Terra.
Anche gli antichi abitanti dell'Europa, i Celti, ponevano al primo novembre la fine e l'inizio dell'anno con la festa del Samain, festa che durava una settimana e che, vedremo, ha profondi legami con quelle attuali.
L'anno vegetativo è al termine; la notte vince sul giorno, la natura muore, le piante si colorano nella struggente bellezza dell'addio e nel colorarsi portano a termine una procedura di purificazione in vista della nuova vita, spingendo nelle foglie i composti di scarto dell'anno di fotosintesi, cioè quei composti chimici (flavonoidi) responsabili del colore delle foglie autunnali; una volta che la pianta se ne è liberata può, finalmente, staccare la foglia che scende a terra e che, marcendo, diventa terra fertile per una nuova vita.
Dall'osservazione del creato, ed in particolare del ciclo vegetativo, partiamo per ascoltare ciò che questo tempo novembrino ha da dirci; ma già solo questo morire per rinascere che le piante ci mostrano potrebbe essere sufficiente a distillare senso.
Ciò che sembra morte in realtà è trasformazione; è il sonno della vita così com'è conosciuta per lasciarsi andare alla speranza di una nuova esistenza.
E' difficile affrontare il mese undicesimo; undici è un numero negativo in tutte le numerologie, l'arcano dei tarocchi abbinato al mese è il tredicesimo, la morte.
La lettura dell'arcano si presta però a vedere un po' più in là, lascia spazio alla speranza; con Ouspensky: " Un altro aspetto della vita. Andare lontano per tornare allo stesso tempo. Completamento del cerchio".
Astro-logicamente il mese è caratterizzato da pianeti aggressivi come Marte, Mercurio, soprattutto Plutone, re degli inferi e signore delle tenebre; dall'esilio di Venere che toglie grazia e smancerie perchè questo è un periodo duro; è il periodo della semina, il seme viene messo al buio, al freddo, solo, nelle profondità della terra all'inizio di un'avventura esaltante e terribile.Anche Giove, pianeta dell'ottimismo, è in caduta; sembra che la luce sia bandita da questo periodo.
Curiosando tra miti e leggende si riesce ad intravedere un po' di luce in tutto questo buio; la morte in genere non è quasi mai presentata come definitiva, accanto alla morte sono sempre presenti i concetti della metamorfosi o della trasformazione.
Cattabiani nel suo 'calendario' intitola i capitoli su questo periodo "se il chicco muore", una locuzione che fa presagire la luce insistendo sulla provvisorietà della morte, quanto di più distante dalla nostra mentalità comune possa esistere. Per chi riesce a vedere con questi occhi la morte diventa periodo di festa in attesa del 'mondo nuovo' comunque lo si intenda, sia esso la primavera, una nuova vita, un risorgere nel regno dei cieli: per questo va festeggiato.
La festa celtica del Samain era la più importante dell'anno: durava una settimana, a partire dal primo novembre, segnando la fine dell'anno vecchio e l'inizio dell'anno nuovo. Era un periodo di commistione, di caos, tra il mondo dei vivi e quello dei morti, un periodo in cui si poteva entrare in comunicazione, un'unione tra cielo e terra, un momento in cui il mondo dell'aldilà poteva comunicare con l'al di qua, e ciò era motivo di grande festa.
Per questo i cimiteri erano visti come luoghi allegri, venivano addobbati e abbelliti per festeggiare l'evento. Di fronte a questo possiamo da una parte scorgere la vicinanza con le feste di Halloween con le loro zucche ridenti, e magari mitigare un po' gli strali di condanna che il cattolicesimo lancia contro questi festeggiamenti pagani; dall'altra rimarcare la distanza tra la concezione lugubre del mondo ctonio che la nostra cultura propone rispetto alle allegre feste celtiche.
Eppure ci deve essere qualche punto di collegamento tra le culture; deve esserci stato un momento in cui le due concezioni, quella festosa e quella lugubre, da un unico ceppo si sono ramificate.
E' una bella ginnastica mentale, una giocosa speculazione filosofica, trovare un punto di contatto a favore del festeggiamento nella vicinanza che la cultura cattolica pone tra il festeggiamento di tutti i santi e quello dei defunti.
La festa dei celti era motivata dalla trasformazione della morte in una nuova vita; così similmente il giorno di commemorazione dei grandi uomini cattolici, cioè dei santi, è proprio nel giorno della loro morte, il dies natalis, perchè proprio in quel momento si festeggia la nuova vita nei cieli delle grandi anime. La morte diventa generatrice di nuova vita.
Così fin dai primi tempi della Chiesa si cominciò a segnare il giorno (ed il luogo della depositio) della morte dei più grandi santi a partire dal cronografo filocaliano del 354 (Chronographus anni 354), primo elenco delle depositio martyrum seguito da un elenco dei giorni della settimana e, curiosamente, delle loro proprietà astrologiche. Da esso si è poi passati al Martirologio Geroniminiano, verso il 550 e poi al Martirologio Romano(Gregorio XIII, 860). Questo elenco di santi nel medioevo fece sì che si istituisse la festa per tutti i santi per celebrare tutti i santi, conosciuti o ignoti, in un'unica data; papa Sisto IV la istituì il giorno primo di novembre e la rese obbligatoria per tutta la Chiesa.
La morte del santo è quindi collegata alla sua festa; come per tutti i santi è usanza universale festeggiare in un giorno tutti i defunti ma solo nell'Occidente moderno ha carattere triste e funebre; in passato, i camposanti erano luoghi ridenti ed allegri, cosa che oggi ci fa sorridere.
Fu la Chiesa, per distinguersi dai culti pagani precedenti e per frenare quelli che considerava abusi, a proibire i banchetti funebri (IV secolo) per distinguere il proprio culto da quello pagano e probabilmente proprio a quest'atto dobbiamo tutta la culturahorror e granguignolesca che tanto ha segnato lo spettacolo e le paure dei nostri tempi e che forse ci ha fatto perdere un po' del patrimonio di cultura che i nostri morti potrebbero trasmettere.
All'occhio curioso che voglia dedicarsi ai festeggiamenti della morte ai nostri tempi è interessante osservare il culto della santa muerte, o santissima Morte, o ancora Santa Proibita, bandita dalla Chiesa ma diffuso in sudamerica, forse derivante dal mito atzeco di Mictecacihuatl. Il culto è fondato proprio da un arcivescovo ora allontanato dalla Chiesa Cattolica, David Romo Guillén.
Più vicino, geograficamente, esiste in provincia di Bari, vicino a Molfetta, la Chiesa della Morte con relativa confraternita.
Più vicino, culturalmente, a novembre si festeggia l'estate di san Martino, il famoso santo che divise in due il mantello per poterlo offrire al povero viandante. L'introduzione del santo nella liturgia dell'epoca ebbe un'accoglienza folgorante, soprattutto nelle Gallie, sopra ogni aspettativa di diffusione; il culto si propagò rapidamente, il luogo in cui veniva custodita dai reali la sua cappa (chape) o mantello diventò luogo di pellegrinaggio (chapelle) tanto famoso da generare il termine 'cappella' come sinonimo di luogo di devozione.
Nei quadri più antichi di san Martino si notano due particolari: il santo cavalca su un cavallo bianco, il mantello è tagliato orizzontalmente, nel quadro è presente un'oca, spesso san Martino sconfigge un diavolo.
La ricerca di collegamenti con i culti precedenti ci porta velocemente a collegarci con il culto celtico di un cavaliere su un cavallo nero che è il dio della vegetazione che rinascendo vince sulla morte, in comunicazione con l'al di là grazie ad un'oca, animale sacro per i celti e messaggero tra i mondi. Risulta così più semplice capire l'iconografia ed il successo del santo. Gli inferi sono visti negativamente dalla cultura cattolica, per questo il cavallo diventa bianco e Martino combatte in molte leggende il diavolo anzichè vincere sugl'inferi; l'oca si trasforma in favoletta diventando l'animale che 'scova' Martino quando non vuole farsi trovare, nascondendosi perchè non osa diventare vescovo.
Ancora una volta il mito preesistente si riveste di nuovi panni per ripresentarsi trasformato ai nostri occhi e prestarsi, all'occhio curioso, all'indagine che può ancora andare in profondità nel gioco di specchi e rimandi che ci fa capire quanto stratificata sia la cultura che giunge a noi; lo potremmo capire anche solo da un piccolo dettaglio affrontando il simbolismo dell'oca di san Martino. Oca che è animale da cortile, semplice riferimento spesso abbinato al puerile gioco dell'oca ma, abbiamo visto, animale sacro e messagero degli dei; aveva ben altro peso culturale in passato fino al punto che tra alcuni dei massimi esperti della cultura medioevale, i costruttori di cattedrali, si usava riconoscersi attraverso il simbolo della zampa dell'oca e ci si riconosceva come 'Jars', che è il nome dell'oca maschio. C'è chi, per estensione, vuole che la palma d'oca sia poi diventata la conchiglia simbolo della trasformazione che guida i pellegrini nel viaggio di purificazione verso l'ovest, verso il mare della conoscenza, cioè verso Santiago di Compostela per poi buttarsi a Finisterre, alla fine della terra o meglio alla fine del mondo, bruciando i propri vestiti, cioè l'uomo vecchio, nell'oceano, rinascendo come vita nuova: lo stesso percorso che ci ricorda il mese di novembre.
L'oca quindi come simbolo di conoscenza per trasformazione; per i curiosi potrebbe essere veramente interessante indugiare sul gioco dell'oca che da passatempo per bambini potrebbe rivelarsi la quintessenza del sapere esoterico, secondo la massima che vuole che per nascondere le grandi verità basta metterle sotto il naso di tutti.
Le modalità con la quale si susseguono le caselle, le loro tipologie e molteplicità, le combinazioni, i riferimenti astrologici e sapienziali presenti nelle 63+1 caselle che portano dall'impossibile casella numero 1 (non si può fre 1 con due dadi, con la polarità, l'Uno è il divino, l'unità, la nascita del tutto) al giardino dell'oca nella casella 63+1, il parallelo tra queste caselle ed i 64 esagrammi dell'I-Ching a loro volta essenza della cultura orientale dovrebbero farci riflettere su quale sia la conoscenza del nostro tecnologico mondo e quale doveva essere quella dei questi Jars, costruttori di cattedrali; l'occhio curioso potrà semplicemente rimanere ammirato e strabiliato dall'interpretazione originale del Gioco dell'Oca che illustra le tappe del pellegrinaggio a Santiago di Compostela di Michel Armengaud o nel riconoscere ad esempio sulla cattedrale di Saragoza riportato su ogni torre, bene in vista, l'esagramma 64 dell'I-ching: secondo le antiche sapienze per nascondere una verità basta mostrarla a tutti.
Gioco dell'Oca che illustra le tappe del pellegrinaggio a Santiago di Compostela, Michel Armengaud
Proseguendo con le feste che ci propone la liturgia cattolica troviamo la presentazione di Maria al tempio.
Cantore di questo momento è stato Fabrizio de Andrè nel suo La Buona Novella, 'concept album' tratto dai vangeli apocrifi, dolcissimo disco che delle figure evangeliche sottolinea più l'aspetto umano di quello spirituale (ad esempio quando Maria parla al figlio: non fossi stato figlio di Dio - saresti stato più figlio mio) di cui De Andrè disse "uno dei lavori più riusciti, se non il migliore".
Cito da Wikipedia: inizia raccontando L'infanzia di Maria: la piccola Maria vive un'infanzia terribile segregata nel tempio ("dicono fosse un angelo a raccontarti le ore, a misurarti il tempo fra cibo e Signore"); l'impurità delle prime mestruazioni ("ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso") provocò il suo allontanamento e la scelta forzata di uno sposo; il matrimonio avviene con un uomo buono ma vecchio, il falegname Giuseppe ("la diedero in sposa a dita troppo secche per chiudersi su una rosa") che la sposa per dovere e la deve poi lasciare per quattro anni per lavoro.
Non è necessario fare molti passaggi logici per avvicinare la festa della presentazione di Maria al Tempio a questo periodo, il periodo della semina, della preparazione della terra, il periodo dell'aratura: quello in cui si prepara la terra, la Grande Madre, a ricevere il seme della vita nuova.
Nell'ultima domenica di Novembre chiude l'anno liturgico la solennità di Gesù Cristo Re dell'Universo; non roba da poco. Potremmo sicuramente fare laiche spallucce di fronte a tanta roboante titolazione, tuttavia l'idea di una salvezza attraverso un sacrificio da parte del Figlio dell'Uomo - così gli piaceva farsi chiamare - che avviene sulla croce, cioè il luogo dove simbolicamente s'incontrano i mondi, il cielo e la terra, un sacrificio che ricrea il mondo facendolo nuovo (sacrificio, fare sacro, sacrum facere), bene, tutto questo non può passare come se nulla fosse messo in relazione con tutte le stratificazioni che ci siamo divertiti ad elencare; è un concetto che trapassa la storia da parte a parte segnando un punto fermo nella liturgia del Tempo e del tempo di questo mese così denso di significati profondi.
Se solo pensiamo al simbolismo del mettere il seme ci rendiamo conto che novembremette incinta la terra; altro che morte così come la conosciamo, è la quintessenza della vita, se esiste un 'Re dell'Universo' è qui, in queste oscurità, che dispiega la sua luce.
Questa, ultima festa dell'anno liturgico, è la coda del serpente; presto sarà mangiata dalla testa, dall'Avvento, in quell'incedere continuo di quell'uruboro che tante dottrine sapienziali indicano come simbolo del tempo fissato nello spazio, simbolo di quella morte, trasformazione e rinascita che novembre offre agli occhi di chi lo sa guardare.
Italo LOSERO
fonte: lacassa.net