Privatizzazioni in Sardegna: abbiamo dimenticato l'Editto delle Chiudende?

14.10.2012 22:02

 

E' abbastanza comprensibile che se dimentichiamo la Storia della nostra patria ci convertiamo in alberi senza radici. Allo stesso modo, la riscrittura della Storia di un popolo può generare delle alterazioni anche molto divergenti nel suo immediato futuro.
Cosa è accaduto da quando noi sardi abbiamo dimenticato la nostra storia e abbiamo accettato un "mito storico" imposto da individui esterni ed ostili?
«Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l'idea di proclamare "questo è mio", e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili: "Guardatevi dall'ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!"» - Jean-Jacque Rousseau (dal "Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini", 1755)
La dominazione piemontese in Sardegna ha inizio nel 1720 ed esattamente un secolo dopo, nel 1820, viene emanato l’Editto delle Chiudende dal re Vittorio Emanuele I di Savoia (detto il Tenacissimo). Con questo decreto si consentì la creazione della proprietà privata e venne del tutto cancellato il regime della proprietà collettiva dei terreni, che era stata una delle principali caratteristiche della cultura e dell'economia sarda fin dal tempo dei nuragici per poi essere sempre successivamente confermato nella legislazione dell'isola.
In particolare si autorizzava «qualunque proprietario a liberamente chiudere di siepe, o di muro, vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o d'abbeveratoio». La stessa licenza era concessa ai comuni, per i terreni di loro proprietà, ed in tutti terreni chiusi in applicazione dell'Editto era «libera qualunque coltivazione, compresa quella del tabacco».
L'Editto infranse il tradizionale principio ubi feuda, ibi demania (dove ci sono beni feudali, là ci sono i demani) che faceva parte del diritto intermedio già da diverso tempo. Fu accolto subito con criticità da alcuni conoscitori dell'Isola, in particolare dall'Angius, che nel 1822 scriveva: «i pastori cominciarono a maledire irreligiosamente l'Editto delle Chiudende e a cercare di reprimere l'ambizione di alcuni chiudenti [...]. Queste doglianze furono dall'Ufficio economico della provincia trovate giuste; non pertanto la invocata legge restò inerte».
 

 

Ordo ab Chaos (Ordine dal Caos)
Questa imposizione dall'esterno di valori culturali portati dai piemontesi, considerati invasori, con le evidenti conseguenze anche economiche per una popolazione che faceva dell'agricoltura comune e della pastorizia su terreni comuni la sua fonte di vita, contribuì in modo determinante a un ulteriore aggravarsi del fenomeno della ribellione e di conseguenza del cosiddetto banditismo sardo.
Divide et Impera (Dividi e Regna)
Da sottolineare che tale fatto alimentò dissidi tra i pastori e i contadini. I privati venivano infatti autorizzati a recingere i terreni e diventarne proprietari assoluti, impedendo nel contempo l’accesso alle greggi che, in tal modo, venivano private di non pochi pascoli. In realtà l’Editto, se per un verso danneggiava i pastori, per altro verso non favoriva certo quei contadini che erano solo prestatori d’opera. Lo stesso documento, infatti, autorizzava i comuni a vendere o cedere gratuitamente i propri terreni, per cui a trarne vantaggio, grazie anche a non pochi abusi, furono solo coloro che già erano proprietari terrieri e, quindi, avevano i mezzi per acquistarne altri o le aderenze necessarie per ottenerne gratis.
 
Problema-Reazione-Soluzione: verso un'agricoltura moderna?
L'Editto delle Chiudende si inserisce in un progetto politico atto a scindere il cordone secolare che, alle soglie dell’era industriale, ancorava la Sardegna al Medioevo e porre le basi per la creazione di una classe di piccoli e medi proprietari terrieri, condizione indispensabile per dare impulso a un’agricoltura moderna capace di innescare, a sua volta, uno sviluppo commerciale e industriale nell’isola.
Scrive Enea Beccu nel suo libro "Tra cronaca e storia le vicende del patrimonio boschivo della Sardegna": «Se il fine fù lodevole, non altrettanto lo fù l’applicazione pratica della norma, che ebbe effetti devastanti in molte campagne. Le concessioni di terreno da destinare a coltivazioni specializzate, oliveti, vigne, cereali, o a pascolo, dovevano essere di superficie limitata, e venivano accordate con la clausola che fossero lasciate libere alcune aree di uso comune: la strada per il passaggio del bestiame rude, quella per il passaggio del bestiame domestico e dei carri, il pubblico abbeveratoio e la vicina fonte perenne. In realtà poi le cose andarono diversamente e si verificarono tanti abusi: furono recintate anche superfici considerevoli, con o senza l’autorizzazione prescritta, inglobati abbeveratoi e strade, sottratti all’uso comunitario preziosi pascoli ghiandiferi, e ciò finì per generare molti disordini tra la popolazione rurale povera e già esasperata dalle angherie baronali. I "prinzipales", i notabili dei singoli villaggi, le persone benestanti "le quali ad altro non pensano che a chiudere terreni per usurparne dalla Comunità e far necessitare l’abbeveraggio del bestiame nei fiumi, con il qual mezzo nell’invernale stagione e nella primavera si fanno pagare a caro prezzo dai pastori il pascolo", approfittarono dell’Editto per impadronirsi di vaste terre d’uso comune e questo sfociò in disordini, devastazioni ed incendi, molti dei quali riguardarono aree boscate. Queste privatizzazioni incisero sulla disponibilità – se non a prezzi esosi – dei pascoli, ed anche delle ghiande occorrenti per l’allevamento dei maiali domestici e determinarono, in qualche caso, una riduzione di due terzi del loro numero».
«Tancas serradas a muru

 

fattas a s'afferra afferra;
chi su chelu fid in terra
l'haiant serradu puru.
Pascoli chiusi con muri
fatti all’arraffa arraffa;
se il cielo fosse stato in terra
avrebbero recintato anche quello.

 

(Tancas serradas a muru, 1820 - Melchiorre Murenu
Lo stesso ex viceré di Sardegna, marchese di Yenne, scrisse due relazioni, la prima il 22 settembre 1832, la seconda il successivo 6 ottobre, che contengono una cronaca sufficientemente istruttiva degli effetti dell'Editto: «È veramente eccessivo l'abuso che fecesi delle chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale. Si chiusero a muro ed a siepe dei boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per "obbligare i pastori a pagarne un altissimo fitto" e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge». Rincarando la dose, aggiunse che l'Editto «giovò nella sua esecuzione soltanto ai ricchi e potenti». Sempre dalla relazione del viceré si apprende (per aver egli assunto «le più accurate informazioni») che gli incidenti cominciarono a Gavoi, con l'abbattimento di tre chiusi e con «discussioni fra li demolitori e danneggiati»; seguitarono poi alla vicina Mamoiada e poi a Nuoro, Fonni, Bitti ed altri paesi, «portando in tutti codesti luoghi devastamenti, incendi e rovine, e segnatamente in Benetutti, il di cui aspetto mette orrore al passeggiero».
Ringraziamenti: ai signori Francesca e Gian Franco, per avermi indirizzato verso la comprensione delle chiudende e dei suoi risvolti sociali. Era un pezzo di storia della mia isola che ancora non conoscevo.
Fonte: marcpoling.blogspot.it