Vujadin Boskov, maestro sul campo e nella vita

26.02.2013 21:25

 

Se l’è fatto tutto il calcio, è partito da Allodi ed è finito con Moggi. Con la “dissiplina”.

 

Cioè, stasera è la sua. Luci a Marassi: Vujadin non paga mai. Entra, s’accomoda, saluta e guarda. “Calcio è bellissimo. Sempre”. Oggi di più. Accende la mente, Boskov. Sampdoria-Genoa, due gradinate, la partita diversa, la più bella, la più forte. Sud-nord. Il mare, il porto, la passione, il calcio. La periferia contro il centro, borghesi contro proletari, antichi contro moderni. Non c’è stato per troppo tempo. Perché la B non è la stessa cosa. Ora sì: oggi. Vuja viene in mente perché resta l’immagine di questa storia che è altra, unica, differente. Milano, Torino, Roma. No. Genova insegna che cosa sia un derby vero. Allora Boskov partirà da Nervi presto per arrivare puntuale. Senza coda al botteghino: “Tanto non pago. L’ho deciso anni fa: Boskov non paga il biglietto a Samp e non vuole tessera. Io prima giocatore, poi allenatore, sono sampdoriano vero. Quando decido di andare allo stadio entro e basta”. Seduto e un po’ agitato, con la faccia di quello che fa finta di essere tranquillo perché tanto partita dura novanta minuti. Gioca ancora con se stesso. Anche adesso che ha 77 anni e se ne sta tutto l’anno diviso tra il mare e il Danubio. Dice che a Nervi la gente lo incontra, lo riconosce e gli fa la domanda. Mister allora? E lui: “Rigore è quando arbitro fischia”,

Resta e resterà, come un’ossessione attaccata al ciuffo bianco che aggiusta ogni volta che parla con quell’accento che sessant’anni di Italia non ha voluto cambiare. Non dice basta, non si lamenta, non si ribella. La pronuncia sgrammaticata gli ha dato la fama eterna che la lontananza dalle telecamere poteva togliergli. Boskov c’è, fa parte di questo mondo per quelle frasi che sono rimaste nella leggenda pallonara. Zio Vuja le racconta ogni volta che vuoi come se fosse un Juke Box del classico: “Gullit è come cervo quando esce di foresta”. Uno non gli chiede nemmeno più che cosa significhi. Gira, rigira, annota, trascrive. Parla incalzando. Trascina le parole che vuole rafforzare. Stende il nome sul cognome. Tipo: Lucavialli o robertomancini. Poi la Y al posto della E: l’italospagnoloserboinglesefrancese della vita è un miscuglio che non si può scomporre. Boskov scherza col suo lessico improvvisato e un po’ ti prende per il culo. Perché è probabile che sappia parlare bene, ma non lo faccia solo per rimanere quello che è, per non deludere, perché gli altri si aspettano di raccontare ancora l’uomo che non s’è mai arreso alla lingua corretta. Perché rovinare tutto? Vujadin ha sempre fatto così.

Dicevano che Vialli e Mancini facevano la formazione della Samp al posto suo e lui non s’è mai incazzato una volta. Rispondeva sì-no-forse. Diceva che chiamava i quattro o cinque forti del gruppo e li faceva sfogare perché credessero di contare qualcosa, però poi faceva di testa sua. Mai un no vero, né una replica piccata. Chissenefrega dell’etichetta, al diavolo quelli che l’hanno sempre considerato un mister depotenziato. Vuja rimane l’unico in grado di portare allo scudetto una squadra come la Samp, ma è anche uno che ha allenato il Real Madrid e gli ha fatto vincere la Liga. “Giocatore, anche”. Ha giocato, sì. Anche se è passato troppo tempo perché qualcuno se ne ricordi. “Ero centrocampista organizzatore di gioco. Destro mio piede, sinistro ho imparato”. Se ne stava in mezzo, dove una volta incontrò Pelé. Era il torneo di preparazione del Mondiale 1958 in Svezia. Jugoslavia-Brasile: “L’ho marcato in amichevole. Lui grande campione, veloce, tecnico, forte nel dribbling. Io ero a fine carriera. Nel 1960 andai alla Samp, poi un anno in Svizzera, poi torno a casa e dico a mia moglie Yelena: ‘Non gioco più perché pallone più veloce di mio piede’. Capito? Anni non perdonano nessuno”.

Hanno perdonato lui dopo. Lui che adesso sta meglio di qualsiasi coetaneo. Dice che si sente bene, più giovane di dieci anni rispetto alla realtà. Quando incontra qualche giornalista che gli chiede come sta, risponde sempre così: “Bene. Sono ancora su due piedi. Capito? Sono autosufficiente e vado in giro con le mie gambe”. S’appoggia sempre a Yelena che lo guarda come sempre e lo segue ovunque voglia andare. Ora stanno qua. Nervi, che è il paese giusto per lui. Ama Genova ma non ci vivrebbe. Non c’ha mai vissuto: se ne è stato lì, un po’ lontano, un po’ defilato. Lì perché gli piace il mondo piccino: il giornalaio che gli porta i quotidiani, il barista che gli serve il caffè come dice lui. Adora la sua casa. La vive: mattina, pomeriggio, sera. Sprofondato in una poltrona comoda accende la tv: guarda le partite e poi cambia canale. Niente post-partita, niente Controcampi e Domeniche sportive. Non lo invitano e non ci va. Se deve guardare un teatro sceglie la politica: “Porta a Porta”. Poi spegne. Domani di nuovo. Nervi, oppure un altro posto. Hanno sette case, lui e Yelena: questa in Italia, poi due in Serbia, una in Slovenia, una in Spagna e due in Svizzera. Vuja ne tiene cinque vuote e ne riempie solo due. Quella che guarda il Tirreno e quella che s’affaccia sul Danubio: “Novi Sad è la mia città. Ed è la città più bella del mondo. Una città di tante genti: ungheresi, slovacchi, ebrei, serbi, croati. Si andava d’accordo con la forza delle differenze, perché l’uomo è scambio e adattamento, sì? E poi il Fiume si allarga come un mare, è piatto come un tavolino e ci sono spiagge bellissime e si può prendere una barca e tenerla anche quindici giorni per navigare”.

Lui pure ha una barca. Forse due. Le guarda e non le usa perché non potrebbe vivere senz’acqua, ma ne ha una paura fottuta. Da bambino annegò nel Danubio, perse conoscenza e lo salvò un amico che si lanciò nel fiume. Da allora guarda, annusa, respira, ma non tocca. Ha bisogno di un fiume o del mare perché gli danno l’idea della disciplina. Dissiplina, come dice lui. Perché nell’acqua ti muovi solo se sai, solo se non ti distrai, se t’organizzi. E’ la sua piccola mania: “Nella vita e nel pallone vince solo chi ha dissiplina”. Allora ricorda sempre che alla Samp riuscì ad arrivare allo scudetto perché controllava i giocatori e pretendeva che tutti rispettassero le regole: “Quando arrivavo in spogliatoio, dieci minuti prima di allenamento, tutti già cambiati e pronti. E ogni minuti di ritardo, diecimila lire di multa. Io arrivavo e chiedevo: ‘Buongiorno ragazzi. Tutto bene? Problemi a casa?’. Oggi i calciatori non reggono più novanta minuti perché la vita privata può essere grande amica o grande nemica dell’atleta. In questi tempi non la vedo tanto amica. I miei giocatori erano liberi fino alle 23.30. Poi telefonavo a tutti per scoprire se erano a casa. A Madrid, Juanito conosceva bene l’ambiente dei locali. A Genova i più controllati erano Lucavialli e Robertomancini, poi Attiliolombardo. Toninocerezo no. Era furbo: gli piaceva la vita notturna, ma non potevo chiamarlo perché era sposato. Comunque avevo 4-5 persone che giravano in tutti i locali notturni di Liguria e mi raccontavano se vedevano i miei calciatori. La mattina dopo, in allenamento, io dicevo: ‘Tu, Lucavialli, ieri stato in quel locale fino a tardi’”.

Fa ridere, Boskov. Fa ridere perché sembra uno uscito da un film anni Settanta. Pare un Lino Banfi versione B-Movie: con quel linguaggio suo, quel modo di fare da macchietta. Si diverte come un pazzo a raccontare di sé e degli altri. Pure le liti lo divertono. Quelle con Scoglio, per esempio. Eccolo il derby. Quello di ieri che è come quello di oggi. C’erano lui e il professore. C’erano loro che da una settimana prima cominciavano a battibeccare. Quella volta gli chiesero di Perdomo. Il Genoa l’aveva appena comprato. “Se io sciolgo il mio cane, lui gioca meglio di Perdomo”. Macello. Il giocatore lo querelò: “Ma io non dire che Perdomo giocare come mio cane. Io dire che lui potere giocare a calcio solo in parco di mia villa con mio cane”. Peggio. Scoglio aveva scelto personalmente il calciatore. Allora aspettò il momento giusto. Arrivò quando la Samp vinse la Coppa delle Coppe. “Coppa delle Coppe? E che vale? A me sembra che valga di più la Coppa del Nonno”. Anche con Carlo Mazzone litigò a distanza. Non si erano mai visti né parlati. Solo che Carletto non aveva mai mandato giù l’idea che Vujadin fosse arrivato in Italia per sostituire lui sulla panchina dell’Ascoli. Qualche anno dopo, quando Mazzone allenava la Roma e Boskov il Napoli, arrivò lo scontro. Carlo disse che il Napoli non giocava bene. “Chi è Mazzone? Forse mi invidia perché io ho vinto titoli e coppe dappertutto e lui ancora nulla”.

Ecco, Napoli. La fine, praticamente. L’esperienza peggiore della carriera. Prese una squadra che era già fallita prima di essere messa su. Ferlaino non aveva più soldi e voglia. L’ultima grande che ha allenato fu la Roma. Quella di Hassler, Giannini, Mihajlovic. Fu Vujadin a far esordire per la prima volta in serie A Francesco Totti. Il primo a vederlo: “Lo feci giocare a Brescia. Me lo ricordo ancora”. E’ andato anche a Perugia. Ultima tappa del cammino. La salvezza all’ultima giornata. Ha finito lì perché le regole che adora gli hanno impedito di continuare: la Federcalcio impone a chi compie 70 anni di lasciare anche se può, anche se se la sente, anche se ha la forza. Lui avrebbe voluto, forse. Però ha lasciato. Poi c’è la storia del fischietto. “In partitella di allenamento, quando ero calciatore, mio allenatore Patek si fa male a ginocchio, si ferma e mi lancia il fischietto: ‘Continua tu’. Io prendo suo posto in squadra e anno dopo diventato allenatore-giocatore. E suo fischietto da quel momento sempre con me. Alla Samp, un giorno Lucavialli fa scherzo e fa sparire fischietto da spogliatoio. Per una settimana non parlo con nessuno e alla fine urlo: ‘Ridatemi fischietto o vi ammazzo’. Dopo poche ore ricompare fischietto. Vado a Perugia e partita Perugia-Milan 1-2: loro scudetto, noi salvezza. Sento urla in spogliatoio dopo la fine della partita. Entro e trovo Alessandro Gaucci arrabbiato con la squadra perché abbiamo perso. Io dico. ‘Tu esci da qui e non urlare perché noi salvi’. Lui dice: ‘Ok, ma lei non sarà più l’allenatore del Perugia’. Io vado in macchina e subito via a casa, senza prendere i bagagli. Fischietto rimasto negli spogliatoi e io smesso di allenare”.

Vuja se l’è fatto tutto il calcio. E’ partito da Allodi ed è finito con Moggi. Non ha visto differenze. Dice che il pallone italiano è sempre il più bello, anche se la classe dei calciatori è inferiore. Si lamenta dei presidenti. Nostalgico. Ricorda il suo migliore: “Paolo Mantovani. Presidente Super. Mai chiedeva quanti soldi volevi. Lui diceva: ‘Signor Boskov resterà ancora con noi?’. Poi Faceva scrivere una cifra al direttore generale. Sempre alta? I ragazzi avevano una disciplina imposta dalla società. Divisa elegantissima con fermacravatta. Senza cravatta al collo non potevano neanche salire sul pullman”. Gli piaceva anche Costantino Rozzi, il primo con cui lavorò in Italia. Per sbaglio, o per malafede. Perché lui allenava il Real Madrid e un giorno lo chiamò Italo Allodi: vieni da noi. “Mi disse che mi voleva la Juventus, ma che dovevo fare prima un anno di esperienza in una squadra più piccola. Andai ad Ascoli. Due anni. Poi Allodi mi richiamò: ‘La Juventus non ti vuole più. Però ti vuole la Sampdoria. Va bene?’”. Eccolo a Genova. A casa. C’era stato da calciatore e l’aveva scelta per una ragione precisa: “La maglia. Era splendida. Il blu, poi quei cerchi bianco-rosso-neri”. Da allenatore cominciò così: “E’ meglio perdere una volta per 3-0 che tre volte per 1-0”. L’ovvietà trasformata in uno stile.

Sorrideva sempre. Cioè si arrabbiava, urlava, sbraitava, poi finiva sempre con una mezza battuta. Scontata, banale, ridicola. Tipo: “Il calcio deve rimanere solo un gioco”. Che sarebbe un’idiozia e però quando la diceva lui, ne era così convinto che te la faceva piacere. Poi l’entusiasmo, la voglia, la grinta. Aveva già superato i sessantacinque quando gli chiesero perché. Perché continua ancora? “Semplice. Mi piace. Mi esalta. Se perdi l’entusiasmo, sei morto. Sono le ore trascorse ogni giorno sul campo tra tanti giovani che mi fanno sentire vivo. E anche le sorprese che il calcio propone, positive o negative, rappresentano uno stimolo costante e avvincente. Ognuno ha il proprio carattere. C’è gente che a cinquant’anni sogna già la pensione. Io no”. Allora quando ha smesso di allenare è andato a fare il commentatore tv di Telemontecarlo. Con la lingua zoppicante e però con l’eccitazione di uno che voleva imparare. Musone felice. Condizione perenne, questa. Qualche tempo fa, Luca Pellegrini lo incontrò in una libreria di Genova dove Vuja stava presentando un libro: “Mister si ricorda quando perdevamo? Diceva sempre: ‘Che c’è, è morto il barbiere?’”.

Il nonsenso elevato a filosofia, il ragionamento da strada portato di fronte al mondo. Con la testa alta, con l’idea che la semplicità fosse l’arma migliore per conquistare la gente e forse la popolarità. S’è inventato accostamenti che non sono tramontati: “Attilio Lombardo è un pendolino uscito dalla stazione”. Poi il trionfo di “rigore è quando l’arbitro fischia” e di “Gol è quando Dio vuole”. Non smette, Boskov. Marassi è suo. Ancora. Ora che la Samp è là, ora che là c’è pure il Genoa. Non ci va spesso. Guarda alla tv. Stasera sì. Sente l’aria buona. Pallone stile anni Novanta, che in questa città resteranno sempre il momento del lusso.

La sbornia: la Samp vinceva gli scudetti, il Genoa se ne andava a vincere ad Anfield. Signorini, Aguilera, Skuhravy, Branco, Fontolan, contro Mancini, Vialli, Pagliuca, Cerezo, Mannini. C’era roba buona, ogni volta. Hanno scritto così: “Genoa e Samp erano come vecchie e nobili compagnie di navigazione che ritrovavano improvvisamente splendore dopo decenni di piccolo cabotaggio. Alla Samp non tenevano un vero e proprio dossier sui giornalisti, però facevano una feroce esegesi degli scritti. Una mezza frase storta e finivi bollato come avversario. La città era divisa in zone, anche i ristoranti erano etichettati. La Sampdoria era molto goliardica e autogestita. Il Genoa era sanguigno, più naif, più genovese. La Samp si lamentava di essere snobbata a livello nazionale. Odiava l’idea di essere solo una provinciale di successo. Voleva legittimazione. Il football, si scrisse, era uno dei pochi aspetti positivi di una città in decadenza. Eugenio Buonaccorsi, docente di storia del teatro (e tifoso blucerchiato), fece un corso monografico dedicato al calcio nell’anno accademico 1991-92”. L’anno dello scudetto. L’anno di Boskov. Vujadin c’era e c’è. Nel derby non paga a Marassi neanche se gioca in casa il Genoa. E sennò se ne torna a casa. Senza problemi. La guarda in tv. Poi domani il pallone è finito: ci ripensa da sabato prossimo. In settimana c’è “Porta a Porta”.

di Beppe Di Corrado

 

 

Dal Foglio del 17 febbraio 2008